Luglio 16, 2025

Il conflitto e la Pace. Un nuovo paradigma? Trani capofila dell’evento promosso da Metabolè – Fucina dei Saperi. Il fatto

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Si può ancora parlare di conflitto costruttivo? Possiamo dire che in un Paese democratico ci sia ancora la voglia di educare alla Pace piuttosto che alla “guerra”?

In quel famoso 1 gennaio del 1948 Enrico De Nicola firmava la Costituzione Italiana che all’articolo 11 cita testualmente:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Un principio post bellico che sanciva la fine di ogni velleità nei confronti di ogni genere di conflitto armato e non.

Il conflitto, dunque, alla base di un dibattito molto partecipato che oggi più che mai necessita di approfondimenti in termini semantici e di significato educativo.

È proprio con questo spirito che venerdì 23 maggio 2025, presso l’Hub Portanova di Trani, si è tenuto l’incontro pubblico “Comprendere i conflitti, educare alla pace”, promosso dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. L’evento è stato organizzato in collaborazione con l’associazione culturale Metabolè – Fucina dei Saperi, attiva da anni nella promozione del pensiero critico e nella difesa dello spazio scolastico come luogo di formazione autentica.

A guidare il dialogo sono stati il professor Michele Lucivero (filosofo, docente, giornalista e ricercatore), il filosofo e presbitero Matteo Losapio, e il filosofo Luigi Vavalà, in un confronto aperto e profondo sul senso della scuola, della pace, e sul pericolo crescente di una pedagogia della guerra che rischia di normalizzare la violenza già a partire dall’infanzia.

Sicurezza ed educazione: un’accoppiata ambigua

Uno dei nodi centrali emersi nel corso dell’incontro è stato il rapporto, sempre più stretto ma anche ambiguo, tra sicurezza ed educazione. A partire dal protocollo firmato nel 2015 tra il Ministero della Difesa e quello dell’Istruzione – sotto il governo Renzi – la presenza delle Forze Armate nelle scuole è diventata non solo possibile, ma persino auspicabile secondo la narrazione dominante. Sfilate, conferenze, simulazioni militari, celebrazioni patriottiche: tutto entra nel curricolo, spesso senza un vero dibattito pedagogico.

Ma cosa significa davvero “sicurezza” quando viene proposta a studenti e studentesse attraverso immagini marziali, gerarchie, simboli bellici? Educare alla pace può coincidere con l’introduzione della logica militare nei luoghi della crescita interiore e della libertà critica?

Gli interventi dei relatori hanno sottolineato la necessità di una distinzione chiara: le Forze dell’Ordine non sono nemiche della democrazia, e non devono essere demonizzate. Il loro servizio, spesso silenzioso e coraggioso, è fondamentale per la tutela dei diritti e della convivenza civile. Ma proprio per questo motivo, il loro rispetto va coltivato nella distanza dall’immaginario bellico. Le divise possono entrare nelle scuole, ma solo se disarmate nel linguaggio, nella postura, nell’intento. Se diventano strumenti di testimonianza, di dialogo con la cittadinanza, non agenti di un’ideologia dell’ordine che scoraggia la complessità e l’immaginazione.

Una scuola per la pace, non per l’addestramento

L’evento ha voluto ribadire con forza che la scuola non è un campo di addestramento, né un presidio di legalità costruito su modelli autoritari. È, piuttosto, una comunità educante, dove si apprende a pensare, a dubitare, a cooperare, a gestire i conflitti senza annientare l’altro. Come ricordato anche nel dibattito, perfino Freud vedeva nella scuola il luogo della formazione del carattere, cioè del sé in relazione agli altri, non dell’obbedienza cieca a una gerarchia.

La progressiva normalizzazione della presenza militare nei contesti educativi sembra invece rispondere a un progetto culturale ben preciso: quello di una società che vede nel conflitto una costante, e nella difesa armata l’unica risposta possibile. In questo schema, il giovane viene preparato fin da piccolo a vedere il mondo come un pericolo, l’altro come una minaccia, e la forza come unica via per la sicurezza.

Ma quale sicurezza può davvero nascere da una visione così impoverita della vita?

La guerra è tornata, ma non se n’era mai andata. Non solo nei territori devastati dai conflitti armati, ma anche nei linguaggi, nei simboli, nelle istituzioni educative. Oggi si combatte una guerra più sottile: quella che penetra nei cervelli prima ancora che nei confini. È la guerra dell’assuefazione, della retorica della sicurezza, della trasformazione dello studente in cittadino-soldato. Una guerra che si maschera da formazione, che si presenta come progetto educativo, che si insinua nelle scuole con l’autorevolezza delle Forze Armate e il sostegno delle grandi industrie belliche. Di fronte a tutto questo, parlare di pace non è solo un dovere morale: è un atto politico e spirituale di resistenza.


La pedagogia della pace come resistenza spirituale e politica

Alla base della deriva militarista che penetra nella scuola non c’è solo una strategia politica, ma una visione antropologica: quella dell’uomo-macchina, ridotto a funzione, soldato, ingranaggio. Un’idea già denunciata da Cartesio nel suo tentativo di fondare la razionalità su ciò che esclude l’immaginazione e l’emozione. Eppure, proprio l’immaginazione è ciò che ci permette di pensare alternative, di costruire ponti, di essere più umani.

La guerra, diceva Giovanni XXIII, è aliena alla ragione. E proprio per questo, ogni tentativo di renderla “normale”, “inevitabile”, “educativa” va contrastato con tutte le forze della cultura, della fede, della cittadinanza attiva. Lo ricordava anche Hanna Arendt con la sua intuizione terribile sulla banalità del male: non sono i mostri a costruire le peggiori tragedie della storia, ma gli individui ordinari che smettono di pensare, che obbediscono per inerzia, che non si interrogano più su ciò che è giusto.

In questo senso, educare alla pace non è un lusso né un’utopia, ma una necessità vitale. La pace non è l’assenza di guerra, ma la presenza della giustizia, della cooperazione, della fiducia. Ecco allora il valore della scuola come palestra della democrazia, come laboratorio di umanità, non come propaggine dell’apparato difensivo.

Anche Sun Tzu, nell’Arte della guerra, riconosceva che la vittoria più grande è quella ottenuta senza combattere. Ma noi possiamo spingerci oltre: la vera vittoria è costruire un mondo in cui non sia più necessario combattere. Un mondo dove il concetto di sicurezza sia inseparabile dalla dignità, dalla solidarietà, dalla cura dell’altro. Un mondo dove la presenza di un carabiniere o di un militare nelle scuole sia un gesto di dialogo e non di autorità, di servizio e non di comando.

In una società che teme che la pace “rammollisca”, la Chiesa, la scuola, e ogni coscienza libera sono chiamate a testimoniare il contrario: che la pace è la più alta forma di forza, perché richiede coraggio, intelligenza, immaginazione e fede nell’altro. E in questo cammino, nessun bambino va lasciato solo in mezzo alle trincee linguistiche della paura. Nessuna scuola va trasformata in avamposto. Nessun educatore può dimenticare che formare l’uomo significa sempre scegliere tra la bestia e l’angelo.

Stefano Patimo

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